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Vino e Globalizzazione: il Vecchio Continente contro le Nuove Realtà Vinicole

Vino e Globalizzazione

Abbiamo assistito negli ultimi decenni a una tendenza diffusa in molteplici settori: la globalizzazione. Questo fenomeno riguarda ovviamente anche il mondo del vino, con alcune particolari implicazioni.

 

Da una parte il “vecchio continente” e principalmente il bacino vinicolo più famoso al mondo per tradizione, mole e diversificazione della produzione: sto parlando naturalmente di Francia ed Italia.

 

Dall’altra le nuove realtà vinicole,partite in ritardo (non solo cronologico), ma con tanta voglia di recuperare: Australia, Sud-Africa e California, solo per citarne alcune.

 

 

La “retorica del terroir”

 

Le “vecchie potenze” hanno sempre legittimato il valore dei loro prodotti attraverso un mix di proprietà specifiche del terreno, condizioni pedoclimatiche e di tutte quelle conoscenze stratificatesi nel corso di secoli di produzione (che si possono riassumere sotto il termine-ombrello di “tradizione”).

 

Condizioni climatiche, proprietà uniche di un terreno e tradizione: in una parola quello che in francese si dice “terroir” e che, per addetti ai lavori e non, è diventato una sorta di santo dogma, su cui spesso i “baroni” del settore hanno fondato la loro fortuna.

 

 

“Vecchio Continente” Vs “Nuove Realtà Vinicole”

 

Superate le soglie del ventunesimo secolo le cose però cambiano. Oggi facciamo i conti con una realtà diversa: quella dell’internazionalizzazione del commercio del vino, con la foga di regioni vinicole fino a qualche decennio fa “insospettabili” e ora ansiose di recuperare il gap.

 

Queste new entry si impongono con prepotenza sul mercato, talvolta mettendo in discussione i criteri che fondano la “santa qualità” dei vecchi dominatori della scena enologica.

 

In questo contesto sono da leggere le annose battaglie legali tra vecchie e nuove realtà del panorama vinicolo internazionale: tutte quelle battaglie che, a volte con successo, hanno portato alla rimozione di alcune espressioni tradizionali dalle bottiglie non prodotte in una certa regione.

 

L’Australia, ad esempio, e in particolare la realtà vinicola dello Château Tahbilk, ha dovuto accettare di eliminare dal marchio della produzione il termine Château, che rientra proprio nella sfera di quei termini ritenuti “tradizionali”- patrimonio unico e non replicabile.

 

La casa Tahbilk ha anzi reagito con orgoglio duplicando la retorica del terroir:

I Nagambie Lakes (Australia) ,secondo le autorità competenti, vantano un’amalgama di massa d’acqua interna, temperatura e composizione del suolo praticamente unica al mondo. Essa conferirebbe una specificità ai loro prodotti che non ha bisogno di avvalersi di termini “appartenenti ad un’altra epoca”… e qui la polemica diventa esplicita.

 

Questi termini sono stati ritenuti indice di tradizione, unicità e originalità dai vecchi storici prodotti, una qualità unica certificata da un nome: proprio questo spiega il progressivo aumento di importanza delle “denominazioni” dei vini e il precisarsi dei disciplinari di produzione.

Dietro i nomi vi sono interessi economici e culturali, significati che vanno ben al di là della semplice etichetta o della corrispondenza con una particolare zona di produzione.

 

Dietro questi discorsi ed anzi proprio attraverso questi discorsi si afferma il valore particolare di un vino. La rivendicazione della produzione, in pratica monopolistica di una certa qualità di vino, è alla base del suo valore, della sua resa in termini economici, e si fonda per larga parte su una retorica dell’unicità e dell’originalità di quel prodotto – unicità e originalità che devono essere “incomparabili”, “incommensurabili”, per essere tali.

 

Queste rivendicazioni sono i risultati di una lotta che non riflette solo una certificata qualità del prodotto, ma anche tutta una serie di discorsi che pongono e costruiscono quel prodotto come “non riproducibile”. La linea di confine è sottile…quanto la “qualità” attestata del prodotto è una vera e propria conseguenza di questa retorica? Un “effetto discorsivo”?

 

 

La “retorica del gusto”

 

L’internazionalizzazione del commercio del vino ci mette di fronte a un fondamentale paradosso: il valore di una particolare bottiglia, di una specifica regione, frutto di unicità climatiche e tradizione, è tale proprio perché non comparabile con qualsiasi  diverso prodotto. Eppure nelle logiche commerciali è essenziale un lavoro di “comparazione” per assegnare un costo a quella bottiglia: un valore di mercato.

 

L’assegnazione di un prezzo a una data bottiglia la rende per ciò stesso comparabile, mettendo così in discussione la sua “pretesa” unicità.

 

La comparazione di due bottiglie (in virtù di un prezzo ad esse assegnato) chiama in causa una serie di discorsi che devono  rendere conto delle qualità “oggettive” di quel vino come prodotto finito. Queste caratteristiche devono esulare, per quanto  possibile, dai criteri di unicità del terroir.

 

Nella tendenza appena illustrata si può ritrovare la ragione della diffusione del ruolo e delle analisi dei sommelier; dell’ampliarsi di un lessico descrittivo di queste proprietà visive, olfattive e gustative del vino; della formulazione di scale di valutazione che fissino griglie e criteri.

 

Attraverso questi strumenti si afferma, almeno nelle intenzioni, la possibilità di valutare diversi prodotti finiti senza tener conto del carico di “capitale culturale” delle zone di produzione, quindi dei produttori, e in ultima analisi della notorietà.

 

All’internazionalizzazione del commercio del vino è dunque seguita quella che è stata definita “la mercificazione del commercio del vino su forme standardizzate”.

 

Basti pensare al celebre Robert Parker e ai suoi Wine Advocates, pionieri delle valutazioni basate esclusivamente sul “taste” (il “gusto” del vino, come sempre discrezionale e soggettivo). A seconda del punteggio assegnato, tali valutazioni riescono persino ad influenzare  il prezzo di rinomatissime bottiglie. Proprio per questo si contano diverse bagarre con storici produttori francesi fautori della logica del terroir, condite da denunce e persino minacce.

 

 

Abbiamo dunque appurato l’esistenza di differenti discorsi in competizione “sul vino” e “del vino”, che cercano appigli per fondare differenti pretese di originalità e qualità.

 

 

 

 

 

Liberamente tratto da “Avventure nel commercio del vino”, in D.Harvey, “Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street”


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